Beata Vergine delle Cendrole

Descrizione

Descrizione
L’antichità di Cendrole ha origini romane. Il nome stesso viene da cinerulae, con allusione alla cremazione dei morti, pratica di origine pagana. Nel luogo dove sorge l’attuale santuario, risulta infatti, in età romana, esistere un culto dedicato alla divinità femminile Diana, vergine dea della caccia e delle selve (i dintorni di Cendrole erano un tempo caratterizzati dalla presenza di una folta vegetazione boschiva).
A conferma di ciò, nel 1730, durante i lavori per la costruzione della nuova chiesa, fu rinvenuto un frammento di epigrafe marmorea (il cippo di Lucius Vilonius), che attesterebbe la volontà testamentaria di erigere in quel luogo un tempio dedicato alla dea Diana. Il passaggio, quindi, dal culto pagano a quello mariano in età cristiana troverebbe un’ulteriore giustificazione, considerando che, come precisa il Bordignon Favero, “La dea vergine Diana, che nessun mortale può vedere nelle sua nudità, è anche la dea dei soldati… è chiamata con nome greco di Selène ed è raffigurata nel quarto della luna crescente, come più tardi ugual simbolo sarà specifico della Immacolata Concezione di Maria”.
L’originaria chiesa di Cendrole, dedicata a Santa Maria Assunta, è tra i più antichi istituti religiosi locali e rappresenta il primo nucleo cristiano di Riese. La pieve delle Cendrole ha la supremazia sulle chiese di Vallà e di Poggiana ma, probabilmente a causa del mutamento di alcune vie di comunicazione, quando il centro che gravita attorno all’istituto viene gradualmente a spostarsi verso l’attuale centro storico di Riese, anche la chiesa (e la località) di Cendrole perde gradualmente la sua supremazia, fino a che, nel 1550, sarà privata di ogni espressione di parrocchialità, assumendo l’aspetto sostitutivo ed esclusivo di santuario mariano.
Conseguentemente a ciò, iniziò pure il declino strutturale dell’edificio architettonico, già piuttosto accentuato nel Seicento e giunto ad un punto tale nei primi anni del Settecento che, nel 1730, si decise di demolire la fatiscente vetusta chiesa e di costruirne una di nuova.
Il progetto del nuovo edificio fu affidato ad Ottaviano Scotti architetto e nobile trevigiano che, come più tardi Andrea Zorzi, fu allievo di Francesco Maria Preti. I lavori di costruzione durarono circa trent’anni: nel 1761, infatti, a chiesa ultimata, fu commissionato a Gaetano Candido (Este, 1727 – Venezia, 1813), come per la parrocchiale di Spineda, uno dei suoi celebri organi (con cassa armonica sagomata, intagliata, dipinta e dorata), che fu collocato dove tutt’ora si trova, nella parete interna dell’ingresso, sopra il portale.
L’esterno del santuario, affiancato dal campanile, si presenta con un inconsueto slancio in alto della verticalità dell’edificio. Il perimetro esterno e la sagomatura delle pareti dichiarano apertamente il movimento strutturale interno ad unica navata della chiesa, seguendo l’andamento sinuosamente spezzato delle curvature.
La facciata è risolta con una prominenza in avanti della parete, ripartita orizzontalmente in tre ordini: un alto basamento che si apre al centro in corrispondenza del portale e che sorregge, in aggetto, subito ai lati dell’ingresso, due semicolonne di ordine tuscanico; un cornicione-architrave ampio e riccamente decorato; la soluzione dell’alto attico, aperto in centro da un finestrone concluso a lunotto; e in fine, a coronare la facciata, l’esile ma delicato timpano.
Quello che all’interno appare armoniosamente calibrato nella verticalità grazie ai partiti decorativi, qui s’irrigidisce in una sorta di forzatura imposta dal dover giustificare architettonicamente all’esterno l’equilibrato slancio verticale dell’interno. L’interno, come una cassa armonica vibrata dalle modulazioni decorative, è un unico vano a pianta rettangolare con angoli smussati che si apre, al di là dell’arco trionfale, nel presbiterio.
Le pareti sono ritmate da un’elaborata partitura decorativa, scandita dal susseguirsi delle colonne corinzie, poggianti su alti basamenti, che sorreggono l’interruzione orizzontale dell’esteso cornicione. Sopra il cornicione, un ulteriore rialzo parietale (come l’attico nella facciata, ma qui armonicamente fuso con l’insieme) accentua la verticalità dell’interno che si conclude con il soffitto a bauletto.
Sulle pareti di smussatura perimetrale, in due ordini si aprono i luminosi finestroni, sotto ai quali, in nicchie, trovano posto le quattro statue in pietra (?) raffiguranti (da destra entrando) MosèEzechieleIsaia e Davide, opere firmate e datate (1910) dallo scultore Francesco Sartor, nipote del papa.
Il presbiterio, rialzato dai consueti gradoni, è stato oggi insensatamente denudato delle sue balaustre originali, privandolo così di quel punto di sosta ottica per lo sguardo che serviva a giustificare armonicamente lo slancio verticale del vano. Tra le opere che si conservano nella chiesa, a livello devozionale, merita particolare menzione la seicentesca scultura lignea dell’altar maggiore, dorata e dipinta, della Madonna delle Cendrole, simbolo del culto mariano del santuario (il Melchiori ricorda una preesistente …“Immagine di Maria Vergine di antichissima struttura a similitudine di quelle che si venera nella Santa Casa di Loreto”…).
Di interesse, e certamente eseguiti sui disegni dello Scotti, sono anche i due altari laterali, opera di un lapicida veneto del XVIII secolo, in marmo bianco e violetto con quattro colonne corinzie; come interessante è l’altar maggiore, sempre di un lapicida veneto del XVIII secolo, in marmi policromi con quattro colonne corinzie.
L’opera pittorica di maggior rilievo è sicuramente la tela attribuita a Luca Giordano (Napoli, 1634 – 1705), pittore di origine napoletana straordinariamente fecondo, soprannominato “Luca Fapresto”, perché il padre, da giovinetto a Roma, voleva che dipingesse velocemente copie dei più importanti dipinti dei maestri del Cinquecento per venderli altrettanto velocemente; fatto sta che questo artista fu famoso, oltre che per le sue alte doti pittoriche, anche perché lavorava effettivamente con velocità così prodigiosa e facilità così sorprendente da meritarsi in tutto il soprannome.
Non solo copiò, ma imitò, e quasi falsificò, la maniera di artisti contemporanei dai quali si sentì inizialmente particolarmente attratto, tanto che alcune sue opere giovanili furono confuse, ad esempio, con quelle di Josepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, del quale Luca fu scolaro. Viaggiò molto e, dopo Roma, fu presto a Bologna, Parma e Venezia, dove il suo classicismo si arricchì di una sensibile luminosità cromatica e di un ampio respiro compositivo.
La sua prodigiosa velocità nel dipingere quasi sempre con alta ed impeccabile qualità (egli stesso diceva di usare tre pennelli: uno d’oro, per papi e monarchi; uno d’argento, per l’aristocrazia; ed uno di bronzo per la borghesia), gli permise d’essere chiamato a lavorare in numerosissime città italiane e all’estero, risiedendo infatti per un decennio alla corte di Spagna (1692-1702). L’opera ascrivibile a Luca Giordano conservata a Cendrole, come sembrerebbe confermare la numerazione posta sul recto della tela (tipica delle opere, dopo il periodo napoleonico, ricoverate presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia, al seguito della soppressione di numerosi istituti religiosi in città e nel Veneto), dovrebbe provenire da Venezia, giunta da noi probabilmente grazie all’intervento di Jacopo Monico (come abbiamo già visto per le due tele del Diziani). Collocata sulla parete laterale del presbiterio, raffigura Il sacrificio di Noè ed è stata eseguita con stilemi figurativi ancora legati ad un classicismo d’impronta romana e bolognese, databile, pertanto, forse al periodo del suo primo soggiorno veneziano (verso la fine degli anni Sessanta del Seicento).
Anche l’opera di Gregorio Lazzarini (Venezia, 1655 – Villabona Veronese, 1730), del quale come abbiamo visto si conserva una sua opera anche nella chiesa di San Matteo, fu data in deposito dalle Gallerie. Di rimpetto a quella attribuita al Giordano, nel presbiterio, raffigura Il sacrificio di Abramo, dipinta a cavallo del secolo con un fare pittorico che mostra sciogliere il suo gusto formale, fatto inizialmente su di una stesura levigata e ferma, in una tenerezza più fusa del colore meditata sugli esempi proprio del Giordano, per giungere quasi a precoci risultati di barocchetto.
Diverse le opere di pittori oggi ancora anonimi che si conservano nel santuario, a cominciare dagli affreschi del soffitto e del lunotto sopra il portale d’ingresso, opera di un artista del XVIII secolo (? – comunque sia dopo il 1760), raffiguranti rispettivamente la Gloria di Maria ed il Padre Eterno con Gesù Cristo assisi sul globo terrestre.
Di buona qualità pittorica è anche la tela ottagonale settecentesca posta sul soffitto del presbiterio, raffigurante l’Assunzione di Maria; mentre di lettura difficilissima, a causa delle estese ridipinture e del suo stato di conservazione, è la tavola datata 1524 (?) raffigurante la Madonna del perdono, che pare comunque avere più valore devozionale che artistico, trattandosi di opera probabilmente di carattere popolare.
Interessante, invece, è la paletta centinata di Noè Bordignon (dotato artista esponente del Verismo veneto di fine secolo, che con lucida vena vernacolare, talvolta di sapore ancora romantico, ha saputo in molte sue opere mettere in risalto la realtà socio-rurale dei ceti meno abbienti della sua epoca) posta sull’altare di destra, curiosamente datata “Roma 1879” e raffigurante Sant’Eurosia.
Nei riquadri delle pareti laterali della navata, per dono di Pio X, sono oggi collocate otto tele databili alla fine dell’Ottocento, tutte copie di importanti dipinti antichi; in quei riquadri dovettero in origine trovare collocazione le otto alquanto modeste tele settecentesche raffiguranti scene dell’Antico Testamento, oggi conservate nell’adiacente cappella di San Biagio.
Sempre nella cappella di San Biagio, di fattura decisamente più discreta, è la paletta centinata raffigurante la Sacra Famiglia, opera datata 1801 di Sebastiano Chemin; mentre scadente di qualità è quella raffigurante Sant’Eurosia, di pittore anonimo del settecento (queste due ultime opere dovettero in origine trovar posto la prima, nell’altare di sinistra, dove oggi si conserva l’effigie di Pio X, la seconda nell’altare di destra, al posto dell’opera del Bordignon).

Pietà ed arte nel Santuario delle Cendrole

L’amore e la devozione di San Pio X per la Vergine, venerata nel santuario delle Cendrole in quel di Riese, formarono in ogni tempo la predilezione del giovanetto Giuseppe Sarto, del sacerdote, del Vescovo e Cardinale, del Pontefice Pio X; ne fanno testimonianza fra innumerevoli prove, le seguenti frasi: “… un Santuario (delle Cendrole), un Altare, una Immagine benedetta, che ho sempre dinanzi agli occhi, fino dagli anni della mia giovinezza e voglia il Signore esaudire i miei voti di vederla anche nella mia vecchiaia, venendo a pregare in quella cara Chiesa” (mons. Sarto, vescovo, a Margherita Andreazza-Parolin, 18 marzo 1892).
Ed ancora: “… grazie delle preghiere fatte e raccomandate per me, specialmente alle Cendrole, dove nei momenti dolorosi mi trasporto col pensiero, veggo tutto come io fossi presente, confortandomi col saluto alla Vergine Santa” (Pio X a Mons. A.G. Longhin 27 agosto 1913).
Era ben giusto che il caro tempio, sperduto nel verde della campagna, vigilato da alti pioppi e lambito dal torrente Avenale, ingemmato soprattutto dalla venerazione secolare del popolo dell’alto Trevigiano, fosse in ogni momento oggetto di cure e premure speciali per renderlo sempre più accogliente alle anime desiderose e bisognose di elevazioni e di aiuti spirituali.
Mosso da questo sentimento, l’arciprete mons. Valentino Gallo, assecondato dal filiale e vivo interessamento di Mons. Lino Zanini, pure di Riese, volle che una «tavola», forse un ex voto, abbandonata, dimenticata in una vecchia sacrestia delle Cendrole, deteriorata dal tempo e dall’incuria, riavesse tutta la squisita bellezza d’arte primitiva e continuasse a cantare così le lodi a Maria.
Mons. Arciprete dispose perché la valentia di un artista ridonasse al dipinto il suo antico valore: mons. Zanini interpretò tale sentimento e tale desiderio con affettuosa premura ed oggi a noi è dato di ammirare, nel Santuario delle Cendrole, quel dipinto prezioso che, un lontano giorno, suscitò l’innocente ammirazione di Beppino Sarto.
Nessuna migliore descrizione dell’opera di quella che qui si riporta dallo studio di Mons. Zanini (“La Madonna del perdono”, estratto da Ecclesia n. 6 del 1955 – Città del Vaticano).
“… Nel lontano 1524 mani devote e cuori pii dedicarono il quadro alla Regina del mondo, sotto la cara invocazione di MATER VENIAE, la Madre del Perdono; questa invocazione si trova per la prima volta in un inno gregoriano, attribuito a Pietro Netere de Argentina (Strasburgo), carmelitano vissuto nel secolo XIV; l’inno è molto conosciuto e diffuso tra i fedeli del mondo intero e comincia con la nota strofa:
«Salve Mater Misericordiae,
Mater Dei et MATER VENIAE,
Mater spei et Mater gratiae,
Mater plena sanctae letitiae».
L’artista non poteva meglio interpretare un mistero così pieno di grazia e di consolazione.
La composizione pittorica è in senso orizzontale; ai piedi del trono si leggono le parole dell’invocazione, già ricordata. Ai lati della Vergine, in atteggiamento umile, sono riprodotte due figure, forse quelle degli oblatori; alla destra, un uomo, in abito di magistrato veneziano o di procuratore della Repubblica Veneta, in atto di presentare una supplica alla Madonna del Perdono; a sinistra, in ginocchio, una donna nell’atteggiamento orante.
Si assiste, così, ad un dialogo proprio dell’anima, che implora perdono da Dio, per la mediazione infallibile di Maria. La Vergine, con amorosa dolcezza, sorregge sulle ginocchia il Pargolo Divino; la Mano materna si poggia sulle scoperte membra dell’Infante.
Ai fianchi, in primo piano, la composizione si arricchisce con la rappresentazione di due Santi: l’Apostolo Pietro e Maria Maddalena. Sono due richiami evangelici di colpe perdonate: Pietro, colui che per tre volte rinnegò il Cristo e per tre volte, poi, Gli riconfermò l’amore; Maria Maddalena, che conobbe troppo l’amore profano, ma che fu purificata dall’Amore divino. Sono due personaggi nello stesso tempo reali ed allegorici e rappresentano la storia di molte anime, in ogni tempo.
La scena ha il suo commento pittorico nell’uso indovinato dei colori; nella figurazione di un paesaggio lontano, che sfuma nel cielo azzurro, mosso e vario fino all’infinito, rievocando l’aperta e ridente pianura veneta; nell’ondeggiamento dei colli, di tenere linee, coperti di vegetazione.
Questa natura, tra monte e piano, è dolce senza essere molle e fa ripensare alla soavità di un perdono cercato ed ottenuto. Anche i tendaggi, che formano quasi una quinta dietro i Santi, entrano nobilmente nell’armonia di questa sacra rappresentazione all’aperto.
Si tratta quindi di una composizione nuova ed originale, che certamente si ispira alla posa rimica del monaco Pietro Netere e che non sembra aver avuto, fino ad oggi, altri interpreti, nella iconografia mariana”.

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