Descrizione
Le prime tracce della chiesa della Madonna della Liberata risalgono ai primissimi anni dell’anno mille. Questa chiesa faceva parte di un insediamento monastico femminile fondato dalla badessa Ramberga, figlia di un grosso possidente terriero di nome Gualcherio, il quale dota il monastero con una quantità elevata di possedimenti che vanno da S. Elpidio Morico a Altidona, tutti governati dal monastero femminile di Liverano, oggi Chiesa della Liberata.
Nella seconda metà del 900 queste corti e molte altre vengono date dal monastero di Farfa in prestaria alla famiglia di Gualcherio fino alla terza generazione. Allo scadere del prestito il monastero ne reclama inutilmente la restituzione: “…Gualkerus filius Ingelrami tenent curtem Sancti Maroti et Sancti Gregorii de Ortezano cum magnis pertinentiis”. L’abate si lamenta perché Gualcherio detiene abusivamente la corte di S. Marone e S. Gregorio, e grandi possessi nella corte di “Fecline” che comprende alcuni Comuni sulla media valle del fiume Aso.
Quasi tutti i possedimenti terrieri, che vennero affidati dal monastero di Farfa a questa famiglia, vengono ceduti o al Vescovo di Fermo o al monastero di Montecassino, solo in minima parte, dopo lunghe cause civili, torneranno nella giurisdizione dei farfensi.
Di certo non corre buon sangue tra questa famiglia e il monastero farfense di S. Vittoria: un’intera dinastia confinante e in lotta contro questo monastero per il possesso terriero.
Nel 1032 la badessa Ramberga cede tutti i possedimenti che ricadono sotto la giurisdizione del monastero di Liverano all’abate Theobald, amministratore del monastero di S. Benedetto di Montecassino.
La donazione comprende le corti di: Garzania ubicata nell’attuale comune di Monsampietro Morico, Morazzano situata nel comune di Monte Vidon Combatte, Arboscla, Liverano, Paterno e Marciano poste tutte a Petritoli e la corte di Barbolano situata nel comune di Altidona. Oltre alle corti, vengono donate anche le chiese e i castelli. Le chiese sono: S. Giovanni in Garzania, S. Marco a Marciano, S. Biagio e S. Maria a Barbolano; i castelli sono due, il primo Garzania e l’ultimo Barbolano, per i restanti usa la formula: “e con tutti i loro castelli che sono nelle sopraccitate corti”. Quindi, gli altri castelli sono uno per ogni corte: il castello di Morazzano, il castello di Arboscla, il castello di Liverano, il castello di Paterno e il castello di Marciano.
Dopo 100 anni tutti i possessi che la badessa Ramberga ha donato nel 1032, vengono riconfermati dall’imperatore Lotario III al monastero di Montecassino nel 1137.
La chiesa, il monastero e il castello di Liverano sono situati tutti sulla vetta del colle della Liberata. Non rimane più traccia della loro esatta ubicazione, possiamo affermare che l’antica chiesa della Liberata, sicuramente è rimasta nella sua collocazione originaria, mentre il monastero doveva trovarsi più in basso in un ampio spazio che permette di avere un agglomerato di costruzioni come i dormitori, il refettorio, i magazzini e tutto il necessario per la normale vita agreste di quei tempi. Osservando il quadro sull’altare della chiesa, si nota subito che la costruzione sorretta da Gesù Bambino, rappresenta la vecchia chiesa di Liverano, anche se somiglia più a un piccolo castello con la torre merlata che non ad una chiesa. Anche l’artista Giuseppe Paci disegna la chiesa prima della demolizione e nel suo disegno si vedono distintamente i possenti merli.
Non sappiamo quando il piccolo castello di Liverano sia stato demolito.
La ricostruzione della chiesa con la destinazione a santuario: “contra pestem” è vera, ciò avviene solo dopo il passaggio dei Lanzichenecchi capitanati dal Generale Lautrek De Foi nel 1527. Non resta nessuna traccia dell’insediamento monastico, possiamo solo ipotizzare che i monaci Cassinesi, appena insediati, iniziano la ristrutturazione del colle e del monastero per adeguarlo alle loro esigenze. Del loro passaggio in questo colle rimaneva solo il coro ligneo, con il trono e lo stemma dell’Abate Mitrato, tipico dei monaci Benedettini, che è ancora al suo posto nel 1889 e Luigi Mannocchi lo descrive nel suo libro: “Memorie storico statistiche di Petritoli”, andato disperso con la ricostruzione totale della chiesa dopo la seconda guerra mondiale.
Tre Papi riconfermano il possesso del monastero di Liverano ai monaci di Montecassino: il primo Nicola II nel 1059, poi Urbano II nel 1097 e infine Callisto II nel 1122; l’ultima riconferma è dell’Imperatore Lotario III nel 1137.
Nel 1290 ad oltre un secolo dall’ultima riconferma dell’Imperatore, il monastero è ancora attivo. Lo possiamo riscontrare da un’attenta lettura delle Rationes Decimarum Italiae, nel triennio 1290-92. In questo documento viene citato il pagamento da parte dell’abate Nicola di una decima straordinaria per sostenere la guerra in Sicilia. La zona di Liverano non fa ancora parte integrante della comunità di Petritoli perché nell’elenco delle Chiese del castello di Petritoli figurano S. Maria in Castello, S. Marziale, S. Prospero e S. Andrea, mentre la chiesa di S. Anatolia e la zona di Liverano fanno zona a sé. Le decime vengono pagate da un abate, la chiesa e relativo monastero sono ancora governati dai monaci benedettini di Montecassino.
Nel 1491 la chiesa e la zona di Liverano fanno parte del comune di Petritoli come si evidenzia nel testamento di Damiani Baldassarre redatto in questo anno dal notaio petritolese Bartolomeo Tomasso Massucci. In questo documento si elencano le chiese del castello che ricevono alcune donazioni: “Ecclesie Sancti Andree, Sancti Martialis, Sancte Anatolie, Sancte Marie in Castello in dicto Castro et Sancte Marie de Liverano in territorio dicti Castri”.
La chiesa nei documenti antichi viene sempre chiamata S. Maria di Liverano. Agli inizi del 1500 avviene il cambio del nome. É un processo che impiega alcuni decenni. Il primo documento che parla della Madonna della Liberata è del 3 agosto 1528, si tratta del contratto stipolato dal notaio Giovanni Monreale tra Domenico Luca Perotti e il pittore Giovanni Battista Morale da Fermo che si impegna a dipingere un quadro in legno per l’altare di “S. Maria della Liberata”. Alcuni anni dopo, nel 1537, un altro notaio Apollonio Luciani redige un testamento e chiama la chiesa ancora col nome ufficiale di S. Maria di Liverano. Il 23 luglio 1530 sempre il notaio Giovanni Monreale compila il testamento di Lorenzo Marino che lascia cinque soldi alla “chiesa di S. Maria della Liberata” ma il notaio, da uomo di cultura, si accorge che la gente sta cambiando il nome della chiesa e specifica il tutto aggiungendo “posta nel territorio di detto castello (Petritoli) in contrada detta liverano”.
Ecco la prova del cambiamento del nome da Liverano a Liberata: ma perché si cambia il nome a una chiesa e a un luogo?
Tutto comincia con la guerra fra Francia, Spagna e il Sacro Romano Impero e con una serie di otto conflitti che vanno dal 1494 al 1559 aventi come obiettivo finale la supremazia in Europa. Le battaglie sono combattute prevalentemente nella nostra nazione, da cui prendono il nome di Grandi Guerre d’Italia.
Petritoli è implicato più volte in queste guerre con alterne fortune. Viene attaccato sempre con piccoli eserciti locali, ma nel quinto conflitto, chiamato “Guerra della Lega di Cognac”, viene coinvolto insieme ai comuni del circondario da una grande armata.
La lega di Cognac è composta da: Stato Pontificio, Repubblica di Venezia, Regno di Francia, Repubblica Fiorentina, Ducato di Milano, Repubblica di Genova, Regno di Navarra, mentre dall’altra parte vi è il Sacro Romano Impero, la Spagna e il Ducato di Ferrara.
Come arriva questo esercito a Petritoli?
Prima che la quinta guerra entri nel vivo, si verifica un episodio clamoroso, destinato a scuotere tutta l’Europa. Nel maggio del 1527 i Lanzichenecchi, soldati imperiali per la maggior parte mercenari tedeschi di fede luterana, rimasti senza paga e senza il comandante Georg von Frundsberg, riescono ad aggirare le truppe della Lega nell’Italia del nord e si dirigono verso Roma.
Circa dodicimila lanzichenecchi attaccano la città santa, penetrano nelle mura, compiendo il terribile Sacco di Roma, nel corso del quale il papa stesso è costretto a rifugiarsi in Castel S. Angelo ed infine a firmare la pace con Carlo V. Contemporaneamente l’esercito francese apre le ostilità vere e proprie inviando un esercito alla conquista del regno di Napoli sotto la guida del generale Odet de Foix, conte di Lautrec. Il Lautrec prende Genova nel mese di agosto 1527, poi Alessandria, e saccheggia Pavia il 4 ottobre. Si dirige poi verso Bologna che lascia il 10 gennaio 1528. Per evitare Roma sceglie di penetrare nel Regno di Napoli dalle Marche e di valicare il confine dalla parte di Ascoli Piceno.
L’esercito, nella sua lunga marcia per raggiungere Napoli, ha bisogno di cibo e ospitalità e, in molti casi, la conquista di un paese serve come mezzo per pagare le truppe con il saccheggio. All’occorrenza chiede alle città che incontra di aprire le porte, accogliere e sfamare i soldati, altrimenti vengono attaccati. In entrambi i casi significa distruzione dei raccolti, aumento della miseria e di bocche da sfamare, compreso il rischio di malattie e pestilenze. Molti comuni non rischiano e acconsentono, altri rifiutano e tentano di resistere ai primi assalti, i più importanti. L’esercito non può perdere molti uomini ad ogni paese che nega loro l’ospitalità.
Nei primi giorni di febbraio del 1528 una parte dell’esercito arriva a Montottone, circa 12.000 fanti comandati da Pietro Navarra. Viene accolto e vengono sfamati, il resto dell’esercito si trova a Fermo. Il giorno dopo, con l’esercito riunito, lasciano Montottone e arrivano a Petritoli. Malgrado questo comune sia rimasto fedele allo Stato Pontificio, gli emissari di Lautrec chiedono viveri, accoglienza e fieno per i numerosi cavalli. Le richieste sono pesanti anche per un castello di prima grandezza e i petritolesi si mostravano restii ad accogliere le loro pretese, quindi, le mura vengono attaccate più volte. I petritolesi assediati, stremati dai continui assalti stanno cedendo. Le donne di Petritoli si accorgono del cedimento, escono dalle loro case e, posizionatesi dall’alto dei tetti, gettano sugli assalitori pietre e qualsiasi cosa avessero a portata di mano, dando modo ai soldati di Petritoli, scesi dalle mura, di fare una sortita e disperdere i nemici. Vista la resistenza e le perdite subite, i comandanti dell’esercito francese decidono di proseguire la marcia verso Ascoli Piceno, usando l’antica strada che collega Fermo ad Ascoli in direzione del castello di Rocca Monte Varmine. I petritolesi assistono al passaggio dell’intero esercito mentre scende verso il fiume Aso. É un esercito enorme, l’armata è composta da trentamila soldati, due legioni di mercenari germanici capitanate dal comandante Valdimonte, una di Lanzichenecchi svizzeri con le picche comandata dal conte di Tenda, figlio illegittimo del duca di Savoia e molte compagnie di ventura italiane di archibugieri e balestrieri comandate da Pietro Navarra. Lo stupore, il timore e la meraviglia era destata dalla cavalleria, tutto il fiore della nobiltà francese era presente, così li descrive Santoro nel suo libro “Tutti avevano pennacchi grandi, così anche i cavalli con freni indorati per il più, e le armi risplendenti, con varie divise, con le lance molto dure e ben ferrate e con tutto l’arnese da cavallo, professando quella nazione in questo di superare tutte le altre d’Europa”. A questi si aggiungano tutto l’occorrente per la logistica: accampamenti, vettovaglie e munizioni, tutti su carri trainati da buoi, una fila interminabile che si allontana dalle nostre campagne.
Lo stupore è enorme. A rimarcarlo arriva, dopo pochi giorni, la notizia della distruzione avvenuta il 9 febbraio di Porchiano, un piccolo paese sopra la città di Ascoli Piceno. Le truppe di Lautrec arrivano in questo comune, ordinano agli abitanti di accoglierli e al loro rifiuto attaccano. La debole difesa non ostacola gli assalitori che conquistano il paese, uccidono 104 persone fra militari e civili, buttati vivi dalle mura, stuprano molte donne poi le uccidono. Il vicario del comune viene gettato sotto il dirupo dalla parte più alta del castello il mattino seguente. Prima di andare via, bruciano tutte le case distruggono il paese, saccheggiano le campagne razziando tutto ciò che trovano, costringono otto ragazze non sposate a seguire l’esercito come divertimento per le truppe.
All’arrivo di questa notizia a Petritoli tutti gridano al miracolo: senza l’aiuto Divino non sarebbe stato possibile scacciare questo terribile nemico. Se il paese, gli uomini, le donne e le ragazze sono salvi è un miracolo, è l’intervento della Madonna che salva il paese. Vengono raccolti fondi e donazioni. Con il ricavato si incarica un valido artista Giovanni Battista Morale di Fermo per dipingere su legno una grande pala d’altare, come ringraziamento alla Madonna. Da questo fatto del 1528 diventa la Madonna della Liberata, qui comincia la storia della chiesa col nome di “Liberata”.
Per la cronaca il grande esercito di Lautrec dopo aver portato morte e distruzione nel suo lungo cammino per raggiungere il Regno delle due Sicilie, arriva a Napoli e la cinge d’assedio ma non la conquisterà. Il suo esercito è già condannato dalla peste che si trascina dietro, lo stesso Lautrec perde la vita ucciso da questo morbo e l’esercito, senza guida, si sbanda. Nel mese di ottobre i pochi soldati superstiti ripassano nel Fermano per tornare in Francia, a Fermo gli vengono dati rifornimenti gratuiti.
I Petritolesi avevano già capito il pericolo di questo morbo. Quando i superstiti Lanzichenecchi ripassano a ottobre con la notizia della peste, avevano già commissionato il dipinto al pittore che doveva raffigurare, ai lati della Madonna, S. Rocco e S. Sebastiano il primo patrono della peste e il secondo degli arcieri. I petritolesi attribuiscono alla Madonna anche lo scampato pericolo dalla peste facendo dipingere S. Rocco prima del ritorno delle truppe.
Il dipinto è chiaramente un omaggio alla Madonna per aver “Liberato” Petritoli dall’assedio dei Francesi di Odet de Foix, conte di Lautrec con il suo poderoso esercito.
Oggi il dipinto su tavola malgrado pesantemente e maldestramente restaurato, è ancora al suo posto, raffigura Santa Maria che sorregge Gesù Bambino. Oltre ad essere il soggetto principale, la Madonna è posta come fulcro dell’intera opera, è raffigurata seduta su un trono di pietra, indossa gli abiti dai colori che la tradizione iconografica Le attribuisce: la veste rossa bordata d’oro che simboleggia la regalità, il manto blu per rappresentare la divinità, il capo è fasciato da un velo plissettato e circondato dall’alone dorato della santità. Il volto è raggiante ma l’espressione umile, è perfettamente consona alla persona di Maria, l’umile “Ancilla Domini”. Sopra la Madonna due angeli si affacciano come ad ossequiare il suo trionfo, entrambi sollevano sul capo di Maria la corona con cui La investiranno di dignità regale.
Lo spirito santo, simboleggiato da una colomba di luce, aleggia sul suo capo. Gesù è raffigurato in piedi sulle ginocchia di Maria e sorregge con le mani la chiesa di S. Maria della Liberata o di Liverano. Ciò significa che la comunità locale gli ha affidato la propria chiesa affinché Gesù vegli su questi sacri luoghi. A sinistra della Madonna vi è raffigurato S. Sebastiano, legato ad un tronco d’albero e trafitto da frecce. La sua presenza nel dipinto ha un duplice significato: il primo è legato alla protezione dalla peste in quanto affiancato a S. Rocco, il secondo in quanto protettore degli arcieri probabili salvatori dell’assalto subito dal castello di Petritoli da parte delle truppe del generale Francese. A destra della Madonna si erge S. Rocco, il Santo che ha ottenuto da Dio il dono di diventare l’intercessore di tutti i malati di peste che avessero invocato il suo nome. È raffigurato con la ferita che gli ha procurato la peste e con l’abbigliamento del pellegrino. La presenza di S. Rocco nel quadro è particolarmente significativa perché attesta che il culto per il santo di Montpellier è già diffuso in queste zone agli inizi del 1500. In basso al centro, quasi a voler rimarcare la seconda immagine per importanza, vi è dipinta la testa di S. Giovanni Battista su un vassoio, chiaro riferimento al suo martirio. La presenza di S. Giovanni Battista ci fa capire che la tavola è realizzata con il contributo generale del paese di Petritoli, dato che ne è il Santo Patrono. Sotto la testa di S. Giovanni vi sono due scalette con incisa una dedica che ci rimanda al committente dell’opera cioè Domenico Perotti e l’anno 1528 in cui è stato dipinto. Sullo sfondo a destra sono raffigurati tre colli e la strada che conduce verso di essi, chiaro riferimento alla comunità di Petritoli. Sempre nello sfondo a sinistra si vedono i ruderi dell’antica e originale sede della chiesa di S. Anatolia, ricostruita non molti anni prima a ridosso del castello di Petritoli, come a voler rimarcare la sacralità dell’antica zona di Liverano.
Con il tempo oltre ad essere un santuario “contra pestem”, verosimilmente originatisi a seguito della terribile pestilenza del 1527 portata in Italia dai Lanzichenecchi, diventa anche meta di pellegrinaggi di fedeli che invocano una grazia.
Mons. Dini effettua la visita alla chiesa il 9 novembre 1624 e annota la grande devozione dei fedeli: “ Visitai la Chiesa rurale della Beata Vergine, dal volgo detta della Liberata, antichissima e di massima devozione, unita alla mensa capitolare metropolitana della chiesa Fermana, nella quale spesso, si celebra per devozione dei fedeli a seguito di Benefici ricevuti dalla beatissima vergine, e nella festa della Natività [8 settembre] di detta beata vergine ad essa chiesa solennemente affluisce un grandissimo numero di persone in processione cantando”.
Nell’inventario del 1771 viene descritta la chiesa: “Chiesa di un’unica navata con un solo altare con cappella di legno con un quadro dipinto in tavola rappresentante da un lato S. Sebastiano dall’altro S. Rocco e in mezzo Maria vergine col suo Bambino in braccio. Dietro l’altare è un piccolo vano rotondo fatto a volta a guisa di tribuna e può credersi fosse anticamente il coro di quei pochi monaci che stanziavano nel monastero con molte figure dipinte all’intorno e nella volta, al presente tutte scrostate vedesi in un sito della stessa Chiesa, dipinto al muro, un crocifisso con la figura di due santi ai lati”.
Nel 1778 la chiesa venne ceduta in enfiteusi: una forma di affitto ventennale alla famiglia fermana dei Bernetti. Allo scadere del contratto acquistano la terra e la Chiesa per una somma molto inferiore al valore dei fondi. Con questa vendita il capitolo metropolitano di Fermo trasferisce ai Bernetti e ai suoi eredi tutti gli obblighi della manutenzione della chiesa della Liberata, obblighi che questa famiglia non ha quasi mai eseguito. La Chiesa cosi torna sotto la proprietà del Capitolo Metropolitano di Fermo. Nel 1901 il conte Giuseppe Bernetti toglie dall’altare il quadro originale su tavola e lo sostituisce con quello della Madonna Addolorata situata nella chiesa di S. Andrea; il dipinto torna al suo proprietario quando la chiesa viene demolita.
Nell’ottobre del 1904 sono collocati nelle pareti laterali due quadri: quello di S. Giuseppe e quello di S. Anna. Nel 1936 avviene un primo crollo parziale che rende la struttura in condizioni precarie di stabilità.
Con il terremoto del tre ottobre 1943 la struttura viene gravemente danneggiata, tanto che viene deciso di demolire ciò che è rimasto per evitare di disperdere il materiale con cui un giorno si ricostruirà la chiesa. Prima della demolizione, viene messo in salvo il dipinto su tavola del 1528 e portato nella chiesa di S. Anatolia. Subito cominciarono le donazioni e si avviò una raccolta di fondi per la ricostruzione.
Il 4 agosto 1957 viene inaugurata la nuova chiesa con grandi festeggiamenti civili e religiosi. Il ritorno nell’altare del dipinto su tavola di Giovanni Battista Morale raffigurante la Madonna da secoli protettrice di questi luoghi, è accompagnato da una grande fiaccolata gremita di gente. Tutto il paese si affolla intorno al sagrato della chiesa, molte persone dai paesi vicini giungono in pellegrinaggio per assistere all’evento. Per alcuni decenni la festa si rinnova il martedì di Pasqua, diventando un punto di ritrovo per i petritolesi e per gli abitanti dei paesi limitrofi, come ci racconta Domitilla Mattioli nel suo libro Parliamo di… ieri: “Al grande appuntamento del martedì di Pasqua sulla Liberata, tempo permettendo, nessuno mancava; prima in chiesa ad onorare la Madonna, poi uova lesse, salame, ciambelle, vino in grande quantità, tutti in fila per giocare a “nciochetta” … in famiglia, una grande, rumorosa, simpatica famiglia. La luminosità del cielo, il rigoglio della natura appena tornata alla vita sembravano trasfondersi nell’animo di tutti: gioiose le grida dei bimbi impegnati in corse sfrenate sui prati fioriti, tenere le passeggiate solitarie dei fidanzati, timidi i primi incontri, vivaci e amichevoli le conversazioni dei grandi intervallate da sonore risate: la festosità della Pasqua e della primavera sul colle della liberata si tramutava in inno alla vita.
di Elvira Concetti e Ilio Cuccù.