Nostra Signora delle Grazie  

Descrizione

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Storia del Santuario

È questa la prima attestazione dell’attuale toponimo Le Grazie; è questa, inoltre, la prova della preesistenza del culto della Madonna delle Grazie all’arrivo dei monaci olivetani. È probabile che questa devozione mariana fosse nata pochi anni prima come effetto della presenza di un pio eremita – Giovanni da Alessandria – e dei suoi seguaci, alla cui probità rende omaggio la supplica indirizzata nel 1431 a Martino V, predecessore di Eugenio IV, dagli olivetani del convento di S. Gerolamo di Quarto.
L’ecclesia menzionata nella bolla papale è identificabile con il corpo di fabbrica a due campate collocato a sinistra della navata della chiesa attuale.
Esso ospita, oltre al fonte battesimale, due altari seicenteschi dedicati a S. Anna e a S. Venerio ma, nel 1584, il visitatore apostolico registrava qui la presenza di due cappelle: la prima intitolata a S. Gerolamo, santo particolarmente caro agli olivetani liguri, e la seconda dedicata alla Vergine delle Grazie.
Qui dunque, prima di essere posta al di sopra dell’altare maggiore, fu conservata per oltre due secoli la tavola di cui si parlerà più avanti; se ciò è vero, non ci possono essere dubbi sull’anteriorità di questa costruzione rispetto al corpo di fabbrica maggiore.
Ottenuta l’abbazia del Tino i monaci olivetani si dedicarono alla costruzione del convento e della nuova chiesa, che è menzionata per la prima volta in un documento del 1452. Ben presto, infatti, i monaci preferirono dimorare alle Grazie piuttosto che al Tino, e ciò anche in considerazione del progressivo aumento della famiglia monastica, che giunse a contare, agli inizi del secolo XVI, da quindici a diciassette membri.
Le rendite dei vasti possedimenti di cui il monastero è dotato consentono di intraprendere, a cavallo fra Quattro e Cinquecento, un ambizioso programma di rinnovamento e di decorazione dell’intero complesso, nell’ambito del quale si situano l’attività di Nicolò Corso (not. 1469-1513), chiamato ad affrescare il refettorio, e di Paolo da Recco, che esegue il coro ligneo intarsiato.
Anche il chiostro viene parzialmente rinnovato, sostituendo, sul lato addossato alla chiesa, costose colonne marmoree con capitelli a foglie uncinate ai precedenti pilastri in laterizio intonacato. E marmorei sono anche il portale, che reca la data 1511, il ricco ciborio e persino, come è emerso dai recenti restauri, i peducci ad abaco delle volte del refettorio.
Il ciborio, che oggi vediamo fungere da cornice rispetto alla tavola della Madonna delle Grazie, è un tipico esempio della tenace persistenza, nella scultura ligure di fine Quattrocento, dell’eredità del passato. Infatti la Resurrezione raffigurata nel fastigio, benché posi su una cornice a dentelli di stretta derivazione classica, è racchiusa da un motivo flamboyant degno delle più stupefacenti carpenterie tardogotiche; viceversa i santi raffigurati ai lati (S. Giovanni Battista; S. Gerolamo; S. Giacomo e un Santo Vescovo non identificato) sono studiatamente atteggiati e drappeggiati “alla moderna” e risentono delle novità introdotte da Michele d’Aria e dagli altri maestri attivi alla fine del secolo a Genova.
Il marmo bianco tende quindi ad essere preferito all’ardesia, alla quale, invece, ci si era rivolti per i peducci dei costoloni dell’abside e per i tre tondi serravolta, tuttora in situ e qui riprodotti per la prima volta. Nel corso del Cinquecento, soltanto il lavabo della sacrestia, di cui si ammira soprattutto il coronamento recante lo stemma olivetano, attesta della persistenza dell’uso dell’ardesia a fini decorativi.
A questo momento è ascrivibile anche l’antifonario membranaceo, ornato di iniziali rosse e blu non figurate, unico resto di una dotazione che è legittimo ipotizzare cospicua.
Attorno alla metà del secolo XVII l’interno della chiesa raggiunge l’assetto che sostanzialmente si è mantenuto fino ad oggi.
L’immagine della Madonna delle Grazie ed il ciborio vengono inseriti in una fastosa macchina marmorea, sulla quale si legge la data 1642; eleganti altari in marmi policromi vengono eretti lungo i lati della navata ed uno di questi – il primo a destra – accoglie l’immagine di S. Margherita da Cortona, proveniente dall’omonima chiesa di Montignoso, abbandonata dopo il 1584 su disposizione del visitatore apostolico perché fatiscente.
Si tratta di un dipinto su tavola recentemente restaurato, databile alla metà del secolo XVI, opera di un anonimo appartenente probabilmente all’area apuana, superficialmente informato delle novità toscane.  Agli inizi del secolo successivo l’arredo marmoreo è completato con la balaustrata del presbiterio, sulla quale leggiamo la data 1713.
Questo rinnovamento va di pari passo con l’aumento del favore mostrato nei confronti di santi legati più strettamente all’orizzonte devozionale dei fedeli del luogo; scompare il culto di S. Gerolamo e si afferma quello di S. Venerio, più intimamente legato alle tradizioni del golfo.
Nella tela di anonimo autore del Sei” cento posta sull’altare a lui dedicato, vediamo infatti il santo eremita del Tino nell’atto di resuscitare un fanciullo affogato.
Sul finire del 1798 la neonata Repubblica Ligure costrinse gli olivetani ad abbandonare il convento, ove ben presto si installarono alcuni nuclei familiari.
La chiesa assunse le funzioni parrocchiali che fino a quel momento erano state proprie di S. Andrea di Panigaglia. Fu in questa occasione che, assieme al titolo, venne trasportata nella nuova sede la tavola cinquecentesca raffigurante, nella zona inferiore, S. Andrea e i SS. Pietro e Antonio Abate.
È assai probabile che dalla stessa chiesa provenga il ciborio ligneo a pianta esagonale, attualmente erratico, il quale infatti reca dipinte le immagini della Vergine, di S. Andrea, S. Pietro e S. Antonio Abate (cioè gli stessi protagonisti della tavola) alla destra dello sportello, nel quale, secondo la tradizione, è raffigurato il Redentore.
Nel corso del secolo XIX, mentre non si attenua la devozione alla Madonna delle Grazie, come attestano alcuni ex-voto marinari, non si verificano modifiche di rilievo all’assetto della chiesa, il cui presbiterio tuttavia accoglie una grande tela di scuola genovese, databile alla seconda metà del Seicento, raffigurante Il perdono di Assisi.
Secondo una tradizione degna di fede essa proverrebbe, come del resto suggerisce lo stesso soggetto, dalla chiesa di S. Francesco Grande della Spezia, sconsacrata e privata dei suoi arredi a seguito della decisione di creare l’Arsenale Militare Marittimo.
La tela può essere ascritta all’ambito di Domenico Piola, uno dei protagonisti della scena pittorica genovese nella seconda metà del Seicento.

Sacra immagine della Nostra Signora delle Grazie

Riguardo alla tavola della Madonna delle Grazie, di cui è ragionevole ipotizzare, per le ragioni esposte nell’introduzione, la presenza nella piccola ecclesia sine cura menzionata nella bolla papale del 1432. 
Nel 1989 la sacra immagine di N.S. delle Grazie (cm. 82,7 x 60) fu sottoposta ad un complesso intervento di restauro, che fu completato con l’approntamento di un’apposita teca in plexiglass, necessaria al fine di proteggere la tavola dalle deleterie conseguenze della permanenza in un ambiente non idoneo dal punto di vista termoigrometrico.
Prima del restauro l’immagine presentava un’estesa ridipintura attribuibile con tutta probabilità al secolo XVII; l’esame radiografico, tuttavia, rivelava l’esistenza di uno strato sottostante, lacunoso ma sufficientemente esteso da consigliarne il recupero. Consolidato il supporto, liberate le assi dalla stretta di una spessa colatura di gesso applicata a tergo, si è proceduto alla rimozione della ridipintura in tutte le zone in cui le condizioni del colore originale lo consentissero. La rigorosa cautela con la quale si è proceduto ha sconsigliato la rimozione della ridipintura in corrispondenza del manto della Vergine, poichè il pigmento originale (azzurrite), privo ormai del legante, si trovava allo stato incoerente e rischiava di essere danneggiato dall’asportazione della ridipintura. Il manto della Vergine appare dunque tuttora privo di quelle attrattive (bordo dorato, stelle anch’esse dorate) che la radiografia aveva preannunciato; nulla impedirà, tuttavia, il completamento della rimozione se in futuro il progresso della ricerca applicata al restauro metterà a nostra disposizione nuovi e più sofisticati procedimenti.
Dopo il restauro, la figura della Vergine si staglia solenne sopra un fondo occupato soltanto dall’oro e dal rosso vivo del tessuto operato che ricopre il trono. Non c’è traccia degli angeli che, nell’esemplare di Quarto, reggevano il drappo e ciò favorisce lo spicco della scritta che occupa l’aureola di Maria: GRACIA PLENA DOMINUS.
Del saluto angelico non vengono dunque utilizzate, come d’uso, le parole iniziali (Ave Maria), ma quelle immediatamente successive, in modo da enfatizzare al massimo la parola ‘grazia’. Abbiamo dunque la prova del fatto che il dipinto ebbe ab origine l’intitolazione odierna e ciò ci consente di considerare certa la sua iniziale destinazione alla chiesetta menzionata nel 1432.
Probabilmente il dipinto fu commissionato pochi anni prima di questa data attingendo alle pie elemosine che la rettitudine di Giovanni da Alessandria e dei suoi seguaci aveva saputo attirare.  Protagonista assoluto nello sfondo, l’oro si riaffaccia, con sommessa raffinatezza, nella manica sinistra e nello scollo della purpurea veste della Madonna, per poi riconquistare un ruolo decisivo nel dialogo con il verde smeraldo del manto principesco del Bambino. Siamo dunque in presenza di un uso assai raffinato, a fini squisitamente espressivi e non meramente decorativi, delle preziose risorse materiche dell’oro, con esiti di maggior consapevolezza, per quanto è possibile giudicare, rispetto alla tavola di Quarto.
Il Bambino stringe nella destra un uccellino, raffigurato con precisione da ornitologo, che tenta di beccare la mano che l’imprigiona; alla bestiola la Madre porge’ ‘un minutissimo oggetto, dall’aspetto di un grano di miglio”, il che consente al pittore di atteggiare graziosamente, esattamente come a Quarto, la mano della Vergine.
Gli incarnati dei volti, solo parzialmente ridipinti, hanno rivelato, a seguito della pulitura, una quantità di sottilissime ombreggiature che rendono continuamente mutevole l’epidermide eburnea.
Totalmente scomparso, invece, l’apparato di intagli e fregi che certamente accompagnava l’immagine e che è lecito supporre ricco e fastoso.  Nonostante questi limiti, il recupero di un testo pittorico così importante deve essere sottolineato in tutta la sua pregnanza. Esso consente di dar corpo ad una personalità finora evanescente, alla quale, per il momento, manterremo il nome di Andrea de Aste. Attraverso questo pittore la Liguria può legittimamente aspirare ad essere inserita nel novero delle aree capaci di autonoma elaborazione estetica nel periodo a cavallo fra il primo e il secondo quarto del secolo X.

dal sito internet: https://www.nslegrazie.org/

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